Doṣa
Se cerchiamo il termine doṣa sul dizionario di sanscrito, notiamo che esso tradotto letteralmente esprime un significato negativo come: difetto, colpa, carenza, errore, conseguenza iniqua, impurità, ecc. I doṣa, dunque, vengono visti come causa di male e, nella medicina ayurvedica, causa di malattia. Affermo, tuttavia, che in questa disciplina medica, tendente in ogni caso a una visione positiva, il termine malattia, già di per se così avverso derivando dalla parola male, è stato eliminato da millenni e sostituito con la parola più proficua vikṛti (cambiamento) la quale, secondo la mia personale interpretazione, fa riferimento ad una modificazione di stato rispetto alla salute. Ciò senza dubbio allevia la condizione psicologica del paziente disponendolo mentalmente a un’attitudine di “disidentificazione” dalla malattia favorendo il processo di guarigione.
E’ bene tenere sempre presente che, come lo yoga lascia intendere, si diventa quello che si pensa. Per questo con tutte le mie forze, fin da giovane, mi sono opposto alla dichiarazione popolare che la vita inizia con un pianto, prima di tutto perché è una dichiarazione falsa in quanto la vita inizia con un respiro ed in secondo luogo poiché tale idea predispone alla resa verso la negatività ed all’insorgere di una condizione patologica.
Per questa ragione, la parola malattia, andrebbe eliminata da tutte le discipline mediche.
A proposito della vita che inizia con un respiro e non con un pianto, grazie alla pratica della meditazione, ho scoperto, ancor prima di dedicarmi allo studio della medicina indiana, che nel respiro si cela il segreto della vita. In effetti si tratta anziché di un segreto di una realtà eclatante ma, come sempre accade, le cose facili ed evidenti non vengono notate. Mi ci sono voluti ben trentatré viaggi in India e ore di meditazione per scoprire che ciò che cercavo viaggiava con me...Nella mitologia indiana si racconta che ci fu un tempo in cui gli uomini erano più simili agli dei ma, poiché stavano facendo cattivo uso del loro divino potere, Brahmā ritenne di privarli della natura di origine divina occultandola in un luogo il più possibile inaccessibile.
Per questo promosse una riunione e iniziò a consultare le altre divinità affinché lo aiutassero a trovare una confacente soluzione. Allora una divinità propose di occultarla nella profondità della terra ma Brahmā ritenne il luogo non abbastanza sicuro in quanto, affermò che l’uomo avrebbe potuto scavare e ritrovarla. Dagli dei si levò un mormorio e una voce disse:- nascondiamola negli abissi marini – ma nemmeno questa soluzione parve esaustiva a Brahmā in quanto disse che l’uomo esplorando la profondità dell’oceano avrebbe potuto riportarla in superficie. Un altro suggerimento fu di celarla sulla montagna più alta, al limite del cielo dove l’uomo fosse impossibilitato a raggiungerla.
Brahmā rispose: - ancora non è sufficiente perché l’uomo scalerà la montagna e se ne impadronirà nuovamente -.
Gli Dei scoraggiati conclusero che non era possibile nasconderla in quanto non c’è luogo sulla terra, nel mare o nel cielo che egli non possa raggiungere.
In quel momento, tuttavia, Brahmā ebbe coscienza di aver trovato la soluzione perciò disse:
- la nasconderemo intimamente dentro l’uomo stesso, albergherà proprio nel suo cuore, è l’unico posto nel quale l’uomo non cercherà. -
Parimenti, in una funzione così palese come il respiro, si celano i principi fondamentali dell’esistenza: la forza di assimilazione, quella di trasformazione e quella di moto o di eliminazione che rispettivamente corrispondono all’inspirazione, all’astensione dalla respirazione e all’espirazione.
Nel mio saggio Nel respiro il segreto della vita, rieducazione alla respirazione, edito da Spazioattivo Edizioni nel 2011 a pagina 30 scrivevo:
Quando si nasce, o meglio, quando si inizia a gestire in proprio l’esistenza, dopo il taglio del cordone ombelicale, la prima di queste tre funzioni a manifestarsi è l’inspirazione. Naturalmente non per caso: sono sempre stato istintivamente portato a non credere alla casualità ancor prima che la sapienza indiana mi levasse ogni dubbio. In natura tutto sembra rispondere alle leggi dell’esistenza e la manifestazione si presenta come un’ordinata azione (karman).
Mi sento di affermare, dunque, che, non per caso, la vita inizia con un’inspirazione e termina con un’espirazione e può anche essere presa in considerazione come un insieme di respiri: ogni giorno, come molti sanno, respiriamo, a seconda del nostro stato e delle condizioni esterne, da 15.000 a 20.000 volte. Gli adepti di alcune interessanti discipline orientali, addirittura, ritengono che all’atto della nascita si verrebbe dotati di un certo numero di respiri. Essi, infatti, tra l’altro, si esercitano normalmente a promuovere e utilizzare una respirazione più consapevole, più ampia e lenta (che allungherebbe anche la vita). La consapevolezza, poi, permetterebbe di cogliere il significato vitale e spirituale di tale atto e di ciascuna sua fase.
La meditazione praticata sul respiro (vipasanā) ha portato anche me a comprendere, ad esempio, che l’inspirazione è strettamente correlata alla forza della sopravvivenza, la stessa che sostiene la vita nutrendola: inspirare, infatti, è espressione dell’assimilare sia in senso fisico, sia psichico.
Tale energia, nel nostro essere, si assume la responsabilità della sua struttura, della protezione (in relazione non solo alle difese immunitarie ma anche ai muchi e alle sostanze lubrificanti).
Chiamata, dai praticanti della medicina indiana ayurvedica, kapha, essa, costituita dal 70% di acqua e dal 30% di terra, è l’energia che forma la struttura del corpo e provvede alla coesione che tiene insieme le cellule. Kapha, inoltre, fornisce l’acqua a tutto il corpo, provvede a lubrificare le giunture e nutre la pelle. E’in forte relazione con il senso del gusto, dell’odorato e il senso del piacere “in generale”.
Le importanti funzioni dell’esistenza sono strettamente correlate al senso del piacere: inspirare da piacere, così come bere, mangiare, far l’amore. Attraverso la sessualità, infatti, la vita sostiene se stessa, si riproduce ed estende. Naturalmente, una vita sana consegue dalla consapevolezza che, trasformandosi in conoscenza, fa perseguire il giusto e non solo quello che piace. L’attaccamento al piacere, ad esempio del bere, come tutti sanno, origina dipendenza e trascina all’alcolismo. Ciò vale anche per tutti gli altri aspetti del piacere. Quando Kapha è in equilibrio si manifesta anche come amore, calma, perdono, soddisfazione mentale ma quando è in squilibrio promuove l’avidità, la possessività, la pesantezza nella mente, i disturbi congestivi, l’accumulo di acqua e di catarro, l’eccessivo sviluppo dei tessuti soprattutto del tessuto adiposo.
L’inspirazione rappresenta, infine, la forza che, a scopo di sostentamento, trascina verso di noi la “vita” esterna, costituita, come il microscopio può rivelarci, oltre che di particelle, di batteri, di microrganismi, di virus, ecc., per affidarla alla “trasformazione” che ha il compito di adattarla alle nostre necessità di sopravvivenza. Il prodotto dell’inspirazione, tramite il sangue, giunge alle cellule dove, per ossidazione, viene reso adattabile e utile.
Con il termine “trasformazione” intendo riferirmi non solo a questo processo, ma a tutti quelli che hanno il compito di digerire ciò che, proveniente dall’esterno (esempio cibo, emozioni), una volta trasformato, va a far parte della personale esistenza e costituzione. Nella disciplina che pratico, tale processo, detto pitta ha nell’astensione alla respirazione, una sua evidente espressione.
Il compito di “trasformare” viene affidato all’elemento fuoco, elemento principale di questo agente (doṣa), infatti, se potessimo dare indicazione della sua percentuale di presenza, diremmo che è il 70% del totale, mentre il rimanente 30% è di pertinenza dell’elemento acqua. Esso governa la digestione, l’assorbimento dei nutrienti e la temperatura del corpo. Quando è in equilibrio promuove conoscenza, intelligenza, chiarezza mentale capacità discriminativa; in squilibrio provoca rabbia, odio, gelosia, febbre e disordini infiammatori.
Per capire, dunque, come funzioniamo, basta pensare a quando vediamo una bella mela: kapha fornisce il desiderio di mangiarla, la prendiamo e iniziamo con piacere a masticarla, è ancora mela nella bocca mentre viene inumidita dalla saliva, nell’esofago ma, quando raggiunge lo stomaco, subisce quel processo di trasformazione, che chiamiamo comunemente digestione, e nel giro di tre/quattro ore, una parte di essa scorre nel nostro corpo sotto forma di plasma, divenendo parte integrante di noi stessi.
Ciò dal punto di vista scientifico (e non solo), è molto interessante, soprattutto in rapporto al piano emozionale: il lettore non dimentichi in nessun caso, come è nella tradizione della disciplina medica indiana, la costituzione psicosomatica del vivente. Per un’ulteriore e più facile comprensione di quest’ultimo aspetto, aggiungo che quando faccio lezione ai miei allievi, essi ascoltano le mie parole attraverso il senso dell’udito, ma è loro possibile comprendere e metabolizzare ciò che viene detto, fino a farlo divenire parte integrante della loro conoscenza, attraverso un tipo di pitta situato nella testa chiamato sādhakapitta.
Tornando al processo di assimilazione della mela, ho dichiarato che solo una porzione di essa, quella utile, va a far parte della costituzione individuale iniziando a scorrere nel plasma, la parte riconosciuta come inutile o dannosa, invece, prende la via dell’eliminazione.
Questo è uno dei compiti (il principale è quello del moto in generale in quanto risulta dall’associazione dell’energia sottile con il movimento) della terza forza che andiamo a scoprire e che, nella nostra disciplina, viene chiamata vāta costituita dal 70% di aria e dal 30% di etere. L’eliminazione, come tutti sanno, avviene attraverso l’espirazione, la sudorazione, l’urina, le feci, ecc. Vāta, tuttavia, governa anche il respiro, il battito cardiaco, il movimento delle palpebre, quello dei muscoli e dei tessuti, tutta l’attività del citoplasma e delle membrane delle cellule. Quando è bilanciato promuove la creatività, la flessibilità, il ringiovanimento ma quando è sbilanciato produce paura, ansietà, disturbi della mente e del sistema nervoso, insonnia, agitazione, instabilità, movimenti anormali, deperimento dei tessuti, dimagrimento, debolezza, disidratazione, ecc.
La forma, tuttavia, più positiva di Vāta è il prāṇa o energia vitale che è la sua sublimazione ed è responsabile sia dell’equilibrio organico sia delle secrezioni ormonali sia dello sviluppo anche come crescita. Il prāṇa è anche l’energia positiva di sostentamento e guarigione che deve poter liberamente scorrere nel corpo attraverso le nāḍī, i canali del corpo sottile, per alimentare la mente, i sensi e favorire l’interrelazione tra la parte spirituale e quella fisica. Una delle più importanti modalità per promuovere la libera circolazione di tale energia, che tra l’altro favorisce l’armonia fra i tre doṣa è proprio la terapia dei marman (marman cikitsā), oggetto di questo manuale che, secondo il suo autore, risulterà utile sia agli studiosi sia a coloro che intendono avvicinarsi o estendere la loro conoscenza verso un argomento ritenuto fino ad ora di difficile comprensione.
Mi auguro, a questo punto, di aver indotto nei miei lettori una riflessione: il benessere dipende dall’equilibrio e gestione democratica dei doṣa (kapha, pitta, vāta) gli “agenti” regolatori della natura. La presenza di “fanatismo” tra di loro determina l’insorgere dello squilibrio. Questi principi, tra l’altro, sono contemplati anche nella moderna fisica e sono: l’inerzia (per l’āyurveda, kapha), l’energia (pitta) e il moto (vāta). Nella respirazione, invece, come abbiamo visto, sono presenti nell’inspirazione, nell’astensione dalla respirazione e nell’espirazione.
Nel microcosmo umano, queste tre energie sono essenzialmente i principi fondamentali che regolano le funzioni organiche e inorganiche e sono in un certo senso gli intermediari tra ciò che proviene dall’esterno come gli alimenti o le emozioni e le funzioni dell’organismo o della mente.
La salute dell’essere umano, come ho già fatto più volte intendere, dipende, dunque, dalla loro condizione la quale, per grazia ricevuta dai sapienti, è resa diagnosticabile e gestibile dalla presenza dei cinque elementi grossolani (bhūta): spazio (ākāśa), aria (vāyu), fuoco (agni), acqua (āpas) e terra (pṛithivī).
Anche l’intera manifestazione è caratterizzata dalla presenza e dall’interazione dei bhūta. Il moto evolutivo, tuttavia è affidato a solo tre di loro: l’aria, il fuoco e l’acqua in quanto l’etere è di per se inerte e la terra è la solidità. Come l’acqua (la pioggia), il fuoco (il sole) e l’aria (il vento) promuovono la crescita o la decrescita in natura, ad esempio nell’agricoltura, anche nel corpo umano essi sollecitano un moto evolutivo
L’āyurveda propone i tre elementi attivi come primari nel principio dei tridoṣa e nonostante tutti e cinque gli elementi siano sempre presenti in ogni doṣa, due di essi risultano essere predominanti in ognuno di loro:
- nel vāta predominano etere e aria
- nel pitta, fuoco e acqua
- nel kapha, acqua e terra
Come tutti sanno, vāta, pitta, kapha per la medicina indiana, vento bile e flemma per la medicina greca, sono i fondamenti base della rispettiva disciplina.
In occasione di un seminario tenuto dal dott. Vasant Dattatray Lad, Luminare e Maestro di āyurveda, al quale ho avuto il piacere di frequentare in Germania, egli, in modo assai chiaro, sostenne che doṣa è una parola specifica usata sia da Caraka sia da Suśruta sia da Vāgbhaṭa soprattutto con il significato di organizzazione. Quando i doṣa, infatti, sono “normofunzionanti”, ovvero nella loro giusta qualità e quantità, essi mantengono una armoniosa psicofisiologia mentre quando si squilibrano essi viziano, corrompono o meglio inquinano i tessuti del corpo (dhātu). E’ in questo caso, sempre secondo il Dr Lad che la parola doṣa assume il suo originale significato di impurità. D’altronde, egli afferò: - doṣa è ciò che diviene viziato e poi infetta i tessuti del corpo promuovendo la malattia, mentre, sulla via della salute, questa parola fa riferimento a tre principi che governano le risposte psicofisiologiche e i cambiamenti patologici -.
I doṣa sono semplici ma anche complesse energie naturali, già presenti nel DNA che si riconoscono, grazie alla presenza dei cinque elementi, per i loro attributi o guṇa (le qualità della prakṛti, sattva, rajas e tamas). Corpo, mente e coscienza, secondo l’āyurveda,operano congiuntamenteper mantenere armonia e equilibrio nell’essere vivente, tuttavia, da parte di un terapista, la loro gestione è possibile solo se si comprende come vāta, pitta, kapha operano insieme.
Sempre secondo l’āyurveda ci sono 20 attributi che qui di seguito riporto:
- śīta-uṣṇa: freddo-caldo
- snigdha-rūkṣa: oleoso-umido, secco
- guru-laghu: pesante-leggero
- sthūla-sūkṣma: grossolano-sottile
- sāndra-drava: denso-liquido
- sthira-cala: stabile-mobile
- manda-tīkṣṇa: opaco-nitido
- mṛdu-kaṭhina: morbido-duro
- ślakṣṇa-khara: liscio-ruvido
- picchila-viśada: vischioso-fluido
Ispirato da questa antica classificazione, vale a dire le dieci coppie di opposte qualità (gurvadi-guṇa) con le quali la medicina indiana identifica le peculiarità di tutte le sostanze, ho ideato per i miei allievi una forma di diagnosi più ampia che definisco “degli aggettivi” con la quale ritengo sia possibile non solo riconoscere tutte le sostanze presenti in natura ma riconoescere e quindi diagnosticare le caratteristiche distintive dei doṣa. Questi ultimi, sono identificabili attraverso gli aggettivi che qualificano gli elementi (bhūta), ad esempio: vāta è secco (rūkṣa) per la presenza di aria. La pelle, i capelli, l’intestino, ecc. “di un vāta”, infatti, sono secchi. Bisogna tenere presente, poi, che la terapia prevede l’uso delle opposte qualità (snigdha, oleoso-umido).
Tale tipo di Diagnosi è stata ampiamente trattata nel mio saggio: ĀYURVEDA: UNA SCIENZA PER LA SALUTE, diagnosi e terapia alla portata di tutti – SpazioAttivo edizioni – Vicenza 2012, nel capitolo La diagnosi degli aggettivi a pagina 35.
Trovo, altresì interessante quanto il Dr. Lad scrive sul suo libro Text Book of āyurveda, Fundamental Principles – edito da The Ayurvedic Press, Albuquerque, 2012 a pagina 35-36
Premetto che il testo che qui propongo è frutto di una mia personale traduzione e interpretazione:
la combinazione e le proporzioni di vāta, pitta e kapha di ogni persona sono determinati dalla genetica, dalla dieta, dallo stile di vita e dalle emozioni dei genitori, con altri fattori, al momento del concepimento. La combinazione dei tre doṣa che forma la costituzione della persona, stabilita all’atto del concepimento, è chiamata prakruti. La prakruti è semplicemente l’unico “makeup” psicofisico e leabitudini funzionali di una persona.
Ci sono sette possibili combinazioni di vāta, pitta e kapha. Per esempio, una persona può essere maggiormente kapha con una secondaria caratteristica di pitta e una piccola quantità di vāta. In āyurveda questo potrebbe essere scritto: V1 P2 K3. Una persona può essere con vāta e pitta uguali ed una piccola parte di Kapha e questo potrebbe essere scritto: V3 P3 K1. I numeri servono a suggerire la classifica di ognisingolodoṣa. Alcuni rari individui, sono nati con una costituzione dove tutti e tre i doṣa sono uguali in qualità e quantità, V3 P3 K3. Queste persone sperimentano una buona salute e un’eccellente digestione. Tuttavia, la maggior parte delle persone ha uno o due doṣa predominanti. Con la dieta appropriata e lo stile di vita esse possono mantenere l’equilibrio e una salute ottimale.
La prakruti, come un codice genetico non cambia durante l’arco di una vita se non in rari casi.
Il Dr Lad continua lasciandoci intendere che anche se le persone hanno caratteristiche costituzionali simili sono in ogni caso diverse poiché i guṇa, esercitando la loro influenza, promuovono la diversità, così, una persona V3 può essere più fredda mentre un’altra con la stessa misura può essere più secca.
Seguendo questo metodo indicato dal Dr Lad, presento, qui di seguito, le sette combinazioni più comuni,secondo la medicina indiana classica:
V3 P1 K1 - V1 P3 K1 - V1 P1 K3 - V3 P3 K1 - V1 P3 K3 - V3 P1 K3 - V3 P3 K3
In conclusione, sempre ispirandomi al testo del Dr Lad, preciso che lo stato chiamato vikṛti nel paziente fa riferimento alla condizione vigente dei doṣa a volte alterata rispetto alla genetica, tuttavia, quando la condizione dei doṣa nel qui e ora è simile a quella della prakruti significa che sussiste uno stato di buona salute ed equilibrio.
Spesso, invece, in presenza di vikṛti, si manifesta una differenza che consegue dall’effettodi alcuni fattori come la dieta, lo stile di vita, le emozioni, l’età, l’ambiente, che non risultano essere in armonia con la prakruti.